“Stay human. Africa”. Essere donna in Africa
di Veronica Tedeschi
Essere donna in Africa può essere faticoso, può significare lottare giornalmente per ottenere gli stessi diritti di un uomo, può significare ingiustizia e sottomissione.
In alcuni Paesi africani, solitamente i più radicali, le donne non sono incluse nella società, che ancora oggi, nel 2018, risulta prettamente maschilista e ostile a cambiamento.
La condizione femminile in Africa non è riassumibile in grandi settori, non si può affermare, come fanno molti, che sicuramente in Africa subsahariana le donne sono più rispettate mentre nell’Africa centrale debbano giornalmente lottare per ottenere i loro diritti fondamentali. L’approccio al mondo femminile è vario e difforme in tutto il continente.
Ci concentreremo su un paese in particolare, appunto perché generalizzare è poco utile: il Ghana, paese multiculturale e multietnico che conta circa 27 milioni di abitanti.
Leggendo la carta costituzionale ghanese, le donne hanno parità di diritti, che, però nella pratica si affievoliscono sempre di più uscendo dalle città e addentrandosi nei villaggi, dove possiamo trovare mamme con circa 5 figli a testa e con un’età media di 20 anni.
Il tutto, però, inizia in un preciso momento, un periodo cruciale per le donne ghanesi, a partire dal quale queste ultime vengono incluse ufficialmente nella società e possono farne parte: il Dipo.
Non c’è un’età precisa per partecipare a questo rito, dipende da quando le madri sentano la necessità di iniziare la figlia alla società; le partecipanti al rito, infatti, hanno dai 5 ai 16 anni. La decisione di non inserire un’età precisa deriva dal fatto che la verginità è conditio sine qua non, ed è proprio per questo che l’età media delle partecipanti diminuisce di anno in anno.
Il rito avviene per la quasi totalità del tempo senza vesti e questo sta proprio a rappresentare l’assenza di ruoli sociali che fino a quel momento ha caratterizzato la donna krobo (l’etnia ghanese nella quale è diffusa questa usanza). La vestizione delle iniziande non avviene con stoffe pregiate ma con fili di perle di vetro colorate, oggetti riconosciuti a livello internazionale e diventati cruciali per le dinamiche comunitarie del Paese.
Le donne sono tutte in fila, le più piccole fanno da apripista, tenendo sulla testa delle grandi zucche vuote con dentro tutto l’occorrente per le abluzioni purificatrici e per le esercitazioni di igiene personale. La destinazione è la fonte sacra dove le donne faranno il primo bagno rituale; successivamente una sacerdotessa aspergerà il volto e il torace delle donne con acqua mescolata a gesso e polvere di legno di sandalo.
Il Dipo è un momento di fondamentale importanza, non solo per le donne che, da quel momento, sono ufficialmente inserite nella società, ma anche per la comunità intera che riceve un nuovo membro.
In passato la preparazione a questo rituale durava addirittura un anno e i mezzi per praticare il rito erano più rudi e pericolosi (venivano usate anche delle lamette). Ad oggi la preparazione, comunque molto dura, al rito dura solo 5 giorni e nessuna cicatrice viene lasciata sul corpo delle ragazze.
Da questo momento in poi il riconoscimento dei diritti della donna è pieno, “io ci sono” può ufficialmente dire una donna krobo.
Essere donna in Africa può essere faticoso ma la lotta perché tradizioni come questa non si fermino continuerà perché mette al centro la donna e gli riconosce diritti e tutela all’interno della comunità in cui vive.
A dispetto della lentezza del cambiamento di mentalità che si sta avendo in quasi tutta l’Africa, non si deve essere pessimisti rispetto alla possibilità di avere in futuro un vero partnetariato fra uomini e donne fondato non solo sull’uguaglianza dei diritti ma su quella nei fatti.