“America latina. Diritti negati”. Amazzonia SOS
di Tini Codazzi

“Toda esta destrucción no es nuestra marca, es la huella de los blancos, el rastro de ustedes en la tierra” (“Tutta questa distruzione non è un nostro marchio, è l’impronta dei bianchi, la vostra tracci sulla terra”)
Davi Kopenawa Yanomami
Queste parole dette da un capo della tribù dei Yanomani fanno male ma purtroppo sono vere. Fin dall’incontro tra i due mondi e la posteriore colonizzazione da parte degli spagnoli e portoghesi nei territori che adesso conformano l’America latina, “il bianco” ha lasciato sì il progresso, ha insegnato la vita moderna, ha sviluppato l’economia e la società, è vero, ma ha anche lasciato dietro il suo passaggio una scia di soprusi enorme e un’impronta di progresso macchiata di sangue, violenza e malattie.
Nel 1995, allo scoccare dell’anniversario numero 500 della scoperta del continente americano, proprio nelle nostre terre, tra gli intellettuali, ricercatori e storici, nacque il dubbio sulla correttezza della parola “scoperta”; così iniziarono a sorgere concetti come: conquista, scontro culturale, incontro tra due mondi, carneficina, genocidio. A proposito così scriveva Valentina Di Prisco in un saggio intitolato Jerico o en busca de la verdad e pubblicato in una rivista letteraria venezuelana: “La verità su tutta questa polemica è che non importa il concetto che si dia, l’importante è che questo episodio, improvviso e selvaggio com’è stato, cambiò completamente la vita e il destino delle due culture”.
Condivido queste parole ed è inevitabile parlare di come dall’epoca della conquista ed evangelizzazione da parte degli europei, la cultura, le tradizioni, le lingue degli abitanti del posto e i loro diritti non siano quasi mai stati rispettati. Violenze sessuali, omicidi, schiavitù, furti di ogni genere sono alcuni degli episodi bui che macchiano la presenza del “bianco” nel continente.
Negli anni Ottanta, i Garimpeiros, cioè i ricercatori d’oro e minatori illegali commisero un genocidio non da poco. 40.000 minatori invasero le terre dei Yanomani e commisero innumerevoli crimini. Parlando di salute: malattie di trasmissione sessuale ed epidemie di malaria, tubercolosi, influenza suina, morbillo, ecc., sono state epidemie sviluppate in queste terre soltanto grazie alla presenza irrispettosa del forestiero che con la sua arroganza, ha mancato di rispetto a queste popolazioni.
Torniamo a parlare del tema perché il Covid19, è già arrivato in territori indigeni, è l’ultima malattia della lista. L’Amazzonia e altri territori indigeni dell’America latina sono già macchiati di virus. Nella fattispecie vorrei raccontarvi la situazione attuale in alcune popolazioni dell’Amazzonia, tra il Venezuela, il Brasile e la Colombia.
Tra marzo e i primi di aprile si è alzata la voce dell’informazione a favore di questi popoli, ormai non esenti di virus. L’ong francese Planète Amazone ha lanciato una campagna di donazione per proteggere i guardiani dell’Amazzonia; il 1° aprile è apparsa la notizia che nel distretto di Santo Antônio do Içá, a nord del Amazzonia brasiliana, vicino al fiume Alto Rio Solimões c’era il primo caso di contagio: un’operatrice sanitaria di 20 anni che aveva avuto contatti con un medico della zona, anche lui risultato positivo e che a sua volta aveva viaggiato verso le grandi città del paese. Conosciamo i movimenti rapidi e aggressivi del virus. Le cifre in questa zona non sono chiare, ovviamente, essendo delle popolazioni molto precarie dal punto di vista dell’acceso all’assistenza sanitaria, all’informazione ed essendo delle etnie fisicamente fragili dal punto di vista immunologico; per cui si può ipotizzare che i numeri siano alti e realmente non coincidano con quelli ufficiali. In tutta l’Amazzonia il numero è salito a poco più di tre mila casi confermati e più di 250 decessi. La regione di Alto Rio Solimões, a pochi km dal fiume Amazzonia ha 12 casi e 2 decessi. Il 9 aprile il governo identificò il primo indigena deceduto nello stato dell’Amazzonia: un uomo dell’etnia Kokama di 44 anni e due giorni dopo un anziano di 78 anni.

In Italia abbiamo già letto sulla situazione nella città di Manaus. Il caos sanitario, i contagi, i morti, le fosse comuni. È proprio così. Ovviamente il virus è già arrivato nelle riserve indigene della zona come nel Parque das Tribos, una riserva in cui abitano 2.500 indigeni di 35 etnie differenti. In tutta la provincia di Manaus ci sono quasi 3.000 contagiati e 259 deceduti al 26 di aprile. Una delle zone rosse del paese. Di questi giorni l’annuncio del presidente della regione Wilson Lima che metteranno su un ospedale da campo dedicato esclusivamente agli indigeni della zona per far fronte al Covid19.
Un’altra popolazione che adesso sta soffrendo molto è quella dei Yanomami, tra il Venezuela e il Brasile. L’area dove i Yanomani sono stanziati è il territorio forestale indigeno più vasto del mondo, sono 38.000 individui e 8,2 milioni di ettari. Questo, come altri popoli della zona, è un popolo abbandonato dai governi, che deve sopravvivere con le proprie forze, per cui c’è un alto tasso di bambini deboli per denutrizione o con debolezze all’apparato respiratorio a causa degli innumerevoli incendi succeduti negli anni. Così, il 9 aprile, il virus si è preso un ragazzo di 15 anni proveniente dai villaggi intorno al fiume Uraricoera nello stato di Roraima al confine con il Venezuela. Il ragazzo aveva un fisico debole, era denutrito e anemico. Queste le dichiarazioni in conferenza stampa del Ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta: “Oggi abbiamo avuto il primo caso confermato tra i Yanomami, il che ci preoccupa molto (…) conosciamo la storia dei cattivi risultati quando gli indigeni vengono affetti da virus che non appartengono al loro ecosistema”. Una delle cause di pericolo più forte in questo territorio dalla parte del Venezuela è la mobilità indiscriminata di minatori illegali che sfruttano i Parchi Nazionali della zona e partecipano in attività illegali e di contrabbando. Un numero reale di contagi in terre venezuelane non c’è, lo sappiamo già, quindi è difficile dire com’è la situazione in queste aree remote. Le cifre ufficiali del governo dicono che ci sono soltanto tre contagi nell’Amazzonia venezuelana. Difficile da credere.
Anche l’Amazzonia colombiana è vasta, ci abitano 64 popoli indigeni e secondo le denunce di OPIAC (Organizzazione Nazionale dei Popoli Indigeni dell’Amazzonia Colombiana) è stata completamente dimenticata dal governo centrale fin dall’inizio della pandemia. I diversi popoli si stanno organizzando da soli per contenere, informare e regolare la situazione. Due giorni fa la notizia di quaranta casi confermati e due deceduti. Il Ministero della Salute Colombiano pubblica la cifra di 104 casi.
L’allerta nelle zone così vulnerabili dovrebbe essere rossa. La conclusione è che c’è una costante tra i tre governi centrali dei paesi coinvolti in questo articolo e cioè una quasi totale noncuranza. Come sempre sono le organizzazioni private, le ong, le fondazioni e i governi regionali a dare l’allarme, ad allertare i governi e l’opinione pubblica internazionale sulle precarie situazioni sanitarie e sulle caratteristiche generali di questi popoli che fanno sì che questo tipo di virus si propaghi in modo esponenziale in pochissimo tempo. La sensazione è che la bomba sta per esplodere, la realtà è che sicuramente è già esplosa. Confidiamo nella forza e nella determinazione che gli stessi indigeni hanno sviluppato nei secoli per sopravvivere a tutte le tragedie e nell’aiuto delle innumerevoli organizzazioni in difesa dell’Amazzonia. Forse questo virus è molto aggressivo anche per loro. Staremo a vedere con le mani legate ma non con la bocca chiusa perché non bisogna mai dimenticarsi di questa meravigliosa parte del mondo.