Diritti e marketing: il green, pink e rainbow washing

di Filippo Cinquemani
Da almeno una decina di anni, il Pride quando arriva coinvolge l’intera città; questo soprattutto nelle grandi realtà come Roma e Milano.
Il grande successo, come spesso accade, porta con sè polemiche e attira amici, ma soprattutto i cosiddetti avvoltoi.
Questo articolo parla proprio di questi avvoltoi.
È sorto nelle ultimi anni un vero e proprio fenomeno che ha preso il nome di Rainbow Washing, un’operazione di marketing pensata per migliorare il proprio posizionamento sul mercato, pescando tra le fila di attivisti e simpatizzanti e fingendo di devolvere una parte del ricavato in beneficenza pur senza avere un reale rapporto con la comunità. È il caso di diverse aziende cinesi che nel mese di giugno promuovono slogan arcobaleno, ma senza condividere i principi di equità e inclusività.
Questa strategia può assumere varie forme: campagne stagionali durante il mese del Pride, sponsorizzazioni di eventi senza un sostegno concreto, donazioni simboliche o l’utilizzo di figure iconiche della comunità per attirare attenzione e vendite, senza un reale coinvolgimento o impegno a favore dei diritti.
Il Rainbow Washing si inserisce in un contesto più ampio di pratiche di “washing” che riguardano anche l’ambiente e la parità di genere. Il Greenwashing si riferisce a aziende che si presentano come sostenibili e attente all’ambiente, senza adottare comportamenti coerenti o sostenibili per davvero. Il Pink Washing, invece, riguarda l’uso di simboli e messaggi a favore della parità di genere o dei diritti delle donne, per distogliere l’attenzione da pratiche aziendali discutibili.
Tutte queste espressioni derivano dal verbo inglese to whitewash, che significa letteralmente “imbiancare” o “dare la calce”, e indica l’atto di coprire, nascondere o occultare la verità per migliorare la reputazione di un ente o di un prodotto.
La realtà appena descritta ci mostra il ruolo di primo piano che ha assunto la sensibilizzazione sui temi sociali, per questo è importante chiedersi: le aziende che promuovono il Pride o altre istanze sociali lo fanno per davvero, o vogliono semplicemente dare credibilità al proprio brand?