Medio Oriente, cosa sta succedendo a Gaza?
di Valentina Tatti Tonni
Nel 2008 Israele aveva affermato, ai sensi del diritto internazionale, che Gaza non era più un territorio occupato. Da due anni, a Gaza all’uscente al-Fath era succeduto Hamas, colui che Stati Uniti ed Unione Europea considerano cellula terroristica e per questo avevano interrotto l’invio di aiuti nei territori palestinesi. Gli scontri tra Hamas, il partito uscente e l’Autorità Nazionale Palestinese non si fecero attendere, come era sempre avvenuto dalla II guerra mondiale.
Molti paesi del Medio Oriente liberati dal dominio coloniale si unirono in favore della cooperazione, ma non Israele che nel 1948 ottenuta l’indipendenza formò il suo Stato, proclamò Gerusalemme sua capitale, ma non si curò abbastanza di attenuare i forti contrasti ancora esistenti tra ebrei e palestinesi, fin da quando le comunità israelite erano affluite in Palestina sotto il mandato britannico. A nulla era servito l’intervento dell’ONU che aveva cercato di correre ai ripari approvando un piano di spartizione in due Stati ma che fu sostanzialmente respinto dagli arabi che non riconoscevano l’autorità di Israele. Persino Arafat con la sua Organizzazione per la Liberazione della Palestina provò a scendere a patti con Israele: erano disposti a riconoscerne l’autorità se loro si fossero ritirati dai territori occupati. Israele rifiutò e nel 1987 scoppiò la prima Intifada.
Parafrasando Oriana Fallaci, i bombardamenti non sono bastati a vincere la guerra. E così, il 30 marzo scorso è iniziata una lunga manifestazione, denominata Giorno della Terra (Yom al-Ard) che ricorda un preciso anniversario, quando nel 1976 sei arabi israeliani vennero uccisi dalle forze militari durante i cortei contro la confisca di vari terreni agricoli. Lo scontro fu sanguinoso. La commemorazione, come ogni anno da allora, si svolge per un periodo di sei settimane giungendo al termine il 15 maggio nel quale ricorre un altro anniversario, quello dell’esodo palestinese del 1948 che si riferisce alla cacciata della popolazione araba-palestinese dai territori occupati da Israele. Più di 700 mila persone furono costrette a lasciare le loro città e i loro villaggi, emigrare forzatamente altrove privati di qualunque diritto. Questo lungo cammino viene definito Marcia del Ritorno (Yawm al-Nakba).
E’ proprio in tale circostanza che il 30 marzo, alla frontiera con Israele migliaia di palestinesi si sono riuniti per rivendicare il loro diritto di tornare nello Stato ebraico e denunciare il blocco imposto da Israele ormai dieci anni fa. Netanyahu ha risposto intensificando le truppe al confine, pronte a far fuoco anche con tiratori scelti: chiunque si avvicini alla zona militare, verrà ucciso. In questo modo, sono stati finora registrati 16 morti e 1490 feriti. Un bilancio che vede Israele imputata dalla Ong Human rights watch (Hrw) che ha chiesto alla Corte Penale Internazionale di aprire un’inchiesta formale per crimini internazionali.
Inoltre, Netanyahu rimane sotto i riflettori della stampa anche per un’altra questione: le migrazioni. Il premier israeliano il 2 aprile, dopo averla da poco annunciata, ha sospeso l’intesa con l’Alto commissariato per i rifugiati dell’ONU. L’accordo prevedeva che migliaia di migranti africani avrebbero potuto essere ricollocati, anche se entrati illegalmente nel Paese, nelle nazioni occidentali, tra cui Italia, Germania e Canada. Nel gioco delle tre carte, “per ogni migrante espatriato, Netanyahu avrebbe concesso residenza temporanea a un migrante in Israele”. Ma nella tarda notte del 2 aprile, un suo post su Facebook ne ha vanificato gli intenti.