Il leone e il macellaio: il colonialismo italiano in Libia
di Monica Macchi
Tutti conoscono le atrocità del nazismo,
ma Il leone del Deserto
è la prima pellicola
sulle brutalità del regime mussoliniano
nelle colonie.
Moustapha Akkad, regista
“In nessun’altra colonia italiana
la repressione ha assunto,
come in Cirenaica,
i caratteri e le dimensioni di un autentico genocidio
Angelo Del Boca, storico
L’Italia repubblicana non ha mai realmente fatto i conti con l’avventura coloniale fascista: resiste ancora il mito degli “italiani brava gente”: una visione romantica, mitica e auto-assolutoria secondo la quale il colonialismo italiano “usa la vanga e non il fucile” ed il soldato italiano è un homo novus generoso e tollerante di fede cattolica e dottrina fascista. L’impresa libica in particolare, è stata celebrata come un “atto di civilizzazione” per lo sviluppo di una nazione arretrata, con un’economia basata su una agricoltura primitiva ed una pastorizia povera. In realtà Graziani, che si è già guadagnato il soprannome di “macellaio del Fezzan”, organizza una serie di operazioni tese al “distacco territoriale tra ribelli e popolazione” trasferendo l’intera popolazione del Gebel Akhdar e della Marmarica verso la costa perchè “i beduini muoiono se rinchiusi”. Il risultato: 40mila prigionieri morti durante le marce di trasferimento, per le pessime condizioni sanitario-igieniche dei campi (per i 33mila reclusi nei lager di Soluch e di Sidi Ahmed el-Magrun c’era un solo medico), le epidemie di tifo e dissenteria, la scarsa e cattiva alimentazione, le violenze compiute dai guardiani e le esecuzioni sommarie per chi tentava la fuga. Il 15 settembre Omar al Mukhtar, capo della resistenza, con un processo farsa (il suo difensore d’ufficio, il capitano Roberto Lontano, è arrestato per aver interpretato troppo scrupolosamente il suo ruolo “travalicando il suo compito”…), viene accusato “di alto tradimento per aver capeggiato la resistenza contro il legittimo governo del suo Paese: l’Impero italiano” e condannato a morte.
C’è un film pluripremiato ma semisconosciuto in Italia che tratta del colonialismo italiano in Libia: “Il leone del deserto” una mega-produzione da 35 milioni di dollari che dura 3 ore e mezzo con attori del calibro di Antony Queen, Irene Papas, Gastone Moschin, Road Stieger e Oliver Read. Trasmesso una sola volta in tv come omaggio di Berlusconi a Gheddafi, ha subìto per anni un vero e proprio ostracismo: interrogazioni parlamentari; accuse di “ledere la dignità nazionale italiana”, di “danneggiare l’onore dell’esercito”, di “vilipendio alle Forze Armate”, di “avere un’impostazione anti-italiana di tipo politico propagandistico, che vorrebbe ribaltare attraverso una pellicola cinematografica il giudizio sul soldato italiano che è invece ormai storicamente definito” e addirittura blitz della Digos per sequestrare la pellicola e impedirne la proiezione. In realtà in una delle scene iniziali, durante il ricevimento per l’arrivo di Graziani a Bengasi, alla presenza del re e di numerosi cardinali, si assiste a una piena ammissione sull’uso di armi non convenzionali da parte italiana: “…se l’Italia sapesse cosa facciamo… stiamo violando la convenzione di Ginevra”. Ebbene nel febbraio 1996, al termine di una lunga disputa tra Angelo Del Boca e Indro Montanelli, il ministro della Difesa dell’allora governo Dini, il generale Domenico Corcione, è intervenuto in Parlamento per confermare ufficialmente ciò che sosteneva Del Boca, sancendo una verità storica fino ad allora negata: truppe italiane in Africa hanno utilizzato, in particolare durante la campagna d’Etiopia, autoblindo, carri armati e aerei per il bombardamento delle oasi con armi chimiche, in particolare fosgene e iprite, un potente agente chimico basato sulla reazione tra etilene e cloruro di zolfo.