I, Daniel Blake: Ken Loach torna a parlare di dignità e indifferenza
Ha vinto lui. Ha vinto uno dei registi più maturi e più arrabbiati. Ha portato a casa il premio più importante all’ultima edizione del Festival di Cannes. E’ Ken Loach, con il suo ultimo film intitolato I, Daniel Blake.
Daniel, un uomo sulla sessantina, vive nel grigio e umido Newcastle, Inghilterra. Ha lavorato sempre come operaio artigiano, un mestiere duro e logorante tanto che ora l’uomo accusa un malore e i medici gli impediscono di continuare nell’attività. Daniel è solo e da solo deve cercare un’alternativa: il riconoscimento dell’invalidità e la riscossione del sussidio, un suo diritto dopo tanti anni di doveri.
Titoli di testa, schermo nero: una voce fuoricampo e il primo piano del protagonista che ascolta. Una voce monotona, fredda, abituata a ripetere sempre le stesse informazioni, senza partecipare al dialogo. E’ la voce di un’impiegata di un ufficio a cui Daniel si rivolge per iniziare la pratica amministrativa. Una comunicazione interrotta brevemente, tra un uomo e una donna/robot. Una comunicazione vuota di pathos, priva di umana partecipazione ed è già da questo incipit che Loach avverte gli spettatori sul tema che vuole raccontare e su quale sia il proprio assunto.
Daniel, infatti, rappresenta tutti coloro – giovani e meno giovani – che hanno perso occupazione e dignità a causa della crisi economica sì, ma anche a causa di giochi finanziari spregiudicati, da cui il cittadino comune è completamente tagliato fuori. E non è un problema da poco. In tutta Europa e in molte altre parti del mondo (vedi il Brasile, ad esempio) è così: intere famiglie sul lastrico, piccoli risparmiatori truffati, imprenditori e artigiani falliti, figli a carico dei genitori o genitori in miseria come l’altra protagonista del racconto cinematografico, Katie, giovane madre di due bambini, disposta a tutto, ma proprio a tutto per garantire loro la sopravvivenza in una cittadina a lei estranea e poco accogliente.
Tornano gli ambienti cari al regista brittanico, ambienti calcati dai passi di Daniel e di Katie che cercano un’occupazione onesta, che portano il loro curriculum bussando a tutte le porte: case popolari, uffici freddi come il freddo e la pioggia che entrano nelle loro anime stanche. Stanche anche le facce degli avvocati, dei dipendenti statali, di quegli uomini e di quelle donne che stanno dall’”altra parte”, incapaci di empatia con coloro che si trovano in difficoltà, aggrappati a quel poco di benessere che ancora hanno il privilegio di avere.
Daniel e Katie entrano nella burocrazia labirintica (comune a tanti luoghi), percorrono una via crucis contemporanea in cui si fa sempre più evidente la disumanizzazione dei “deboli”, considerati numeri e dei “forti”, alienati tra carte e cavilli.
Alcuni hanno criticato Ken Loach perchè in questo film non si avverte la rabbia furiosa dei suoi film precedenti. E’ vero che Daniel non ha lo spirito ribelle di Eric (Il mio amico Eric) o incazzato di Piovono Pietre, ma ciò non vuol dire che con questo suo ultimo lavoro non abbia compiuto un nuovo, importante atto politico. Loach è cresciuto, ha vissuto, ha osservato e le sue riflessioni possono essere esposte anche in maniera più pacata, ma per questo non meno incisiva: la furia appartiente all’età della giovinezza, la saggezza a quella della maturità e un uomo maturo sa come dire NO anche senza fare la guerra.
In I, Daniel Blake non c’è molta speranza per le fasce più fragili della società, ma c’è una luce in un suggerimento: quello di far leva sull’umanità, sulla solidarietà quotidiana, sulla capacità di mettersi nei panni dell’Altro per farli propri per condividere la pena e le piccole gioie. Un’amicizia tra un uomo di mezza età e una giovane donna, i rari sorrisi di due bambini, posso tramutarsi in una grande ricchezza da cui, magari, ripartire.