Dove si appoggia il giorno

di Jorida Dervishi Mbroci
Non c’erano palazzi. Solo case. Case basse, coi tetti vicini al cielo e i muri un po’ vissuti. Sembravano appoggiate al suolo con delicatezza, come se anche loro, un giorno, potessero decidere di andarsene.
Lei camminava piano. I passi senza fretta, lo sguardo che toccava tutto. Non faceva foto. Non prendeva appunti. Era il cuore che registrava tutto.
Sapeva che li stava guardando per l’ultima volta, quei posti. Lo sapeva, anche se nessuno gliel’aveva detto. Anche se non c’era nessun addio scritto. C’era solo il corpo che sentiva: “guarda bene, perché dopo sarà diverso.”
Ogni angolo le diceva qualcosa. Ma lei non rispondeva. Accoglieva tutto in silenzio, come si fa con le cose importanti. Con quel rispetto che si dà solo ai ricordi che fanno ancora male.
L’ultimo giorno era andata al centro commerciale. Lo faceva sempre, quando voleva stare in mezzo al mondo senza dover parlare con nessuno. Aveva preso un gelato – crema e fragola – e si era seduta vicino alla fontana. Guardava le persone passare, senza fretta. Le mani che reggevano le buste, i volti distratti, le voci basse.
Non succedeva niente, ma lei sentiva tutto. Era come se in quel momento si fosse accorta davvero che stava finendo. E aveva lasciato che finisse, senza opporsi.
Poi era andata via. Un’altra città. Un altro ritmo.Aveva ricominciato da sola, col passo lento di chi ha perso qualcosa ma non vuole perdersi anche lui. Aveva costruito piano, con le mani e con la testa. Aveva pianto senza fare rumore. E poi aveva sorriso. Non perché fosse tutto a posto, ma perché nonostante tutto, era ancora lì.
Era questo che la teneva in piedi: non la forza, ma la scelta di non sparire. Ogni giorno. Anche quando era più facile chiudersi, lei si apriva un po’. Anche quando era più comodo dire “non ce la faccio”, lei provava ancora.
Poi era tornata. Per un progetto, per pochi giorni. Ma non era passata dai luoghi di prima. Aveva scelto strade nuove, quelle dove nessuno la conosceva. E lì, stranamente, aveva respirato.Aveva sentito che si può tornare, ma in modo diverso. Che si può riconoscere qualcosa senza doverlo rivivere.
I luoghi veri, quelli dove aveva amato e sofferto, erano rimasti dietro.Non li aveva evitati. Li aveva semplicemente rispettati.Non era ancora il momento.E forse non lo sarà mai.Ma va bene così.
Chi l’aveva lasciata, lei lo sapeva.Una frase sola, basta.Non serve nominarli per sapere quanto hanno fatto.E non è lì che voleva guardare.
Lei guardava avanti.Alla luce che filtra tra le cose, anche quando sembra non esserci.Alle mani che non tremano più.Al cuore che batte piano, ma regolare.
Aveva capito che non serve capire tutto.Che si può vivere anche con le ferite aperte, se impari a non toccarle ogni giorno. E che ci sono dolori che si tengono con cura, come si tiene qualcosa che ha lasciato un segno ma ti appartiene.
La sua forza non era visibile. Era nei piccoli gesti. Nel mettersi in ordine anche quando dentro è confusione. Nel tornare a casa con le buste della spesa e sentirsi comunque forte. Nel non chiedere più scusa per il proprio dolore. Nel dire “oggi ci sono” anche quando la voce è bassa.
Dio, se c’è, lei lo sentiva lì. Nel secondo esatto in cui decideva di non lasciarsi cadere. In quel momento preciso in cui, senza spettacolo, si rialzava. Né miracolo, né magia. Solo resistenza, silenziosa, vera.
E così ogni giorno si appoggiava. Al tempo, al gesto, al proprio nome detto piano. A quel filo che tiene insieme tutto anche quando sembra che tutto stia per crollare.
Si appoggiava al giorno, e il giorno si lasciava tenere. Come una promessa non detta. Come una mano che non stringe, ma c’è.
E alla fine, era questo il miracolo. Non che fosse passata. Ma che lei, con tutto quel dentro,stava ancora lì.
Content creator: Boris Maretto




