Anima bagnata

di Jorida Dervishi Mbroci
Mi chiamo Azzurra.
Ho imparato a nuotare prima ancora di sapere come si scrive il mio nome.
Mia madre diceva che non piangevo mai da piccola.
Ma appena mi avvicinavi all’acqua, ridevo.
Ridevo con tutta la faccia, come se finalmente mi ricordassi chi ero.
Non lo so se è vero, ma mi piace pensarla così.
Sono cresciuta vicino al mare.
Non il mare dei cataloghi o delle vacanze.
Il mio era un mare stanco. Grigio.
Con le barche ferme come cicatrici e le reti bagnate a disegnare confini sul molo.
Non c’erano ombrelloni, né gelati, né bambini che urlano.
Solo vento.
E l’odore del sale, forte, che si appccicava ai vestiti, alle finestre, alla pelle.
Ce lo portavamo anche in casa, il mare. Senza accorgercene.
Mio padre diceva sempre:
“L’acqua capisce più degli uomini.”
Aveva mani grandi, dure, consumate. Parlava poco.
Ma quando mi guardava, sembrava che dentro gli occhi ci fosse una tempesta.
Io lo ascoltavo. E ci credevo.
Soprattutto quando ero sola, con la giacca troppo leggera e il vento che mi urlava in faccia.
C’erano giorni in cui mi veniva da buttarmi. Non per morire, ma per… risparmiare.
Per sentirmi acqua, anche solo per un attimo.
A casa parlavamo due lingue.
L’albanese era per le cose vere: per dire “mi manchi”, per urlare, per abbracciare forte.
L’italiano era per comportarsi bene, per dire “grazie”, “va tutto bene”, anche quando non era vero.
A volte mi incasinavo.
Dicevo “ti dua tanto”, oppure “jam lodhur” quando non ce la facevo più, anche se a scuola non capivano.
Un giorno ho inventato una parola: “shpiriti-mare”.
Per me voleva dire: anima bagnata.
Non puoi spiegarla.
La senti solo quando hai il cuore pieno d’acqua e non sai da dove cominciare a svuotarlo.
Poi ho capito che non tutto si può dire.
E non tutto si deve capire.
A volte basta raccontarlo.
Così com’è.
Come quando ti esce il respiro da solo, senza pensarci.
Una volta, alle medie, ci hanno chiesto di portare un oggetto che ci rappresentasse.
Qualcuno ha portato un trofeo, un altro un disegno, c’era pure una con la foto di quando era nata.
Io ho rovistato nei cassetti, ma non trovavo niente che mi somigliasse.
Poi l’ho vista. Una conchiglia. Neanche tanto bella.
Un lato era scheggiato. L’altro pieno di sabbia secca.
L’ho portata.
Quando è toccato a me, non ho fatto un discorso.
Ho solo alzato la conchiglia, l’ho tenuta in mano come fosse viva, e ho detto:
— Questa sono io. Rotta da un lato, ma dentro c’è il mare.
Silenzio.
Uno lungo.
Qualcuno ha fatto una smorfia. Ma l’insegnante ha sorriso. Pianoforte.
E io… io ho sentito come se, per un attimo, tutto quello che erano arrivati.
Come se qualcuno avesse davvero ascoltato.
Non solo le parole, ma il rumore che ho dentro.
Da quel giorno ho iniziato a scrivere.
Non romanzi, non poesie da pubblicare.
Scrivimi per non scordarmi.
Per tenermi la galla.
Quando mi sembra che sto affondando, mi metto a scrivere. Anche solo due righe.
Anche solo una parola.
A volte basta scrivere “ci sono”, e già respiro meglio.
Scrivo quando ho paura.
Quando sento nostalgia di qualcosa che non so cos’è.
Quando sogno mio padre che parla col mare.
Scrivo anche adesso.
Qui, per te che forse leggerai.
O forse no.
Ma io ti parlo lo stesso.
Perché raccontarsi non è un lusso.
È una corda lanciata nel buio.
È tenere stretto quello che altrimenti andrebbe via.
Io sono Azzurra.
E questa non è tutta la mia storia.
È solo una goccia del mio mare
CREATORE DEL CONTENUTO: Boris Maretto